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Sai tu l’isola bella, a le cui rive

Manda l’Ionio i fragranti ultimi baci,

Nel cui sereno mar Galatea vive

E ne’ monti Aci?

Dell’ombroso pelasgo Erice in vetta

Eterna ride ivi Afrodite e impera,

E freme tutta amor la benedetta

Da lei costiera.

Amor fremono, amore, e colli e prati.

Quando la Ennea da’ raddolciti inferni

Torna co ‘l fior dei solchi a’ lacrimati

Occhi materni.

Amore, amor, sussurran l’acque; e Alfeo

Chiama ne’ verdi talami Aretusa

A i noti amplessi ed al concento acheo

L’itala Musa.

Amore, amore, de’ poeti a’ canti

Ricantan le cittadi, e via pe’ fòri

Doriesi prorompono baccanti

Con cetre e fiori.

Ma non di Siracusa o d’Agrigento

Chied’io le torri: quivi immenso ondeggia

L’inno tebano ed ombrano ben cento

Palme la reggia.

La valle ov’è che i bei Nebrodi monti

Solitaria coronano di pini.

Ove Dafni pastor dicea tra i fonti

Carmi divini?

‒ Oh di Pelope re tenere il suolo

Oh non m’avvenga, o d’aurei talenti

Gran copia, e non dell’agil piede a volo

Vincere i venti!

Io vo’ da questa rupe erma cantare

Te fra le braccia avendo e via lontano

Calar vedendo l’agne bianche al mare

Sicilïano. —

Cantava il dono giovine felice.

E tacean li usignoli. A quella riva.

chiusa in un bel vel di Beatrice

Anima argiva.

Ti rapirò nel verso: e fra i sereni

Ozi delle campagne a mezzo il giorno.

Tacendo e rifulgendo in tutti i seni

Ciel, mare, intorno.

Io per te sveglierò da i colli aprichi

Le Driadi bionde sovra il piè leggiero

E ammiranti a le tue forme gli antichi

Numi d’Omero.

Muoiono gli altri dèi; di Grecia i numi

Non sanno occaso: ei dormon ne’ materni

Tronchi e nei fiori, sopra i monti, i fiumi,

i mari eterni.

A Cristo in faccia irrigidì nei marmi

Il puro fior di lor bellezze ignude:

Nei carmi, o Lina, spira sol nei carmi

Lor gioventude:

E se gli evoca d’una bella il viso

Innamorato o d’un poeta il core,

Da la santa Natura ei con un riso

Lampeggian fuore.

Ecco, danzan le Driadi, e ‒ Qual etade ‒

Chieggon le Oreadi ‒ ti portò sì bella?

Da quali vieni ignote a noi contrade,

Dolce sorella?

Mesta cura a te siede in fra le stelle

Degli occhi. Forse ti ferì Ciprigna?

Crudel nume è Afrodite ed a le belle

Forme maligna.

Sola fra voi mortali Elena argèa

Di nepente a gli eroi le tazze infuse .

Ma noi sappiam quanti misteri Gea

Nel sen racchiuse.

Noi coglierem per te balsami arcani

Cui lacrimar le trasformate vite,

E le perle che lunge a i duri umani

Nudre Anfitrite.

Noi coglierem per te fiori animati

Esperti della gioia e dell’affanno:

Ei le storie d’amor de’ tempi andati

Ti ridiranno;

Ti ridiranno il gemer della rosa

Che di desio su ‘l tuo bel petto manca.

E gl’inni, nel tuo crin, della fastosa

Sorella bianca.

Poi nosco ti adduirem nelle fulgenti

Dell’ametista grotte e del cristallo,

Ove eterno le forme e gli elementi

Mescono un ballo.

T’immergerem nei fiumi ove il concento

De’ cigni i cori delle Naidi aduna:

Su l’acque i fianchi tremolan d’argento

Come la luna.

Ti leverem su i gioghi al ciel vicini

Che Zeus, il padre, più benigno mira.

Ove d’Apollo freme entro i divini

Templi la lira.

Ivi raccolta nelle aulenti sale

Nostre, al bell’Ila ti farem consorte.

Ila che noi rapimmo a la brumale

Ombra di morte. ‒

Ahi, da che tramontò la vostra etate

Vola il dolor su le terrene culle!

Questo raggio d’amor no ‘l m’ invidiate,

Greche fanciulle.

La cura ignota che il bel sen le morde

Io tergerò co ‘l puro mele ascreo.

L’addormirò co’ le tebane corde.

Se fossi Alceo,

La persona gentil nello spirtale

Fulgor degl’inni irradïar vorrei.

Cingerle il molle crin co’ l’immortale

Fior degli dèi:

E mentre nel giacinto il braccio folce

E del mio lauro la protegge un ramo,

Chino su ‘l cuore mormorarle ‒ dolce

Signora, io v’ amo.

(Aprile 1875)

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